FACCIAMO IN CONTI IN TASCA ALL’ACI

Ci hanno provato ad abolire il PRA, il tanto discusso Pubblico Registro Automobilistico. Pier Luigi Bersani ci ha provato nel 2000 e nel 2007, invano. Poco importava che dal 1992 il Pra fosse un inutile doppione degli elenchi della Motorizzazione civile. Prima di Bersani, anche i sostenitori di un referendum promosso nel 1995 da un comitato presieduto dall’ex direttore del Sole24ore Gianni Locatelli e composto da una serie di associazioni e dalla rivista Quattroruote si erano dovuti arrendere. Le firme vennero raccolte in abbondanza, ma la Corte costituzionale dichiarò il quesito inammissibile. Tanto è misteriosamente potente, la lobby del Pra, da essere sfuggita alle grinfie della spending review e anche della Legge di stabilità portata avanti dal Governo Renzi.

Sopravvive così uno degli ultimi residui della normativa fascista, considerato che l’iscrizione dei veicoli al Pra è prevista da un decreto del 1927. Ma quello che conta di più è il fatto che questa tassa occulta da circa 200 milioni l’anno, cifra pari a sei volte e mezzo lo stanziamento 2014 per il dissesto idrogeologico in tutta Italia, rappresenta una formidabile assicurazione sulla vita per un carrozzone chiamato Automobile club d’Italia.

L’Aci, per chi non lo sapesse, è infatti l’unica federazione sportiva dipendente dal Coni che oltre a gestire per legge una funzione statale obbligatoria per i cittadini riscuote pure una imposta: il bollo auto. Ovviamente non gratis. Per la riscossione di quella tassa ha incassato nel 2012 la bellezza di 41 milioni, che sommati ai 191 introitati grazie alla gestione del Pubblico registro automobilistico fanno 232 milioni di Euro. Somma alla quale vanno aggiunti 14 milioni di ricavi «diversi» dalle amministrazioni statali e dalle Regioni per i servizi di informazione sulla mobilità. Totale del fatturato pubblico, 246 milioni: vale a dire l’84,8 per cento delle entrate complessive, risultate pari a 290 milioni. Proporzioni che ben descrivono l’anomalia della quale stiamo parlando, ma non dicono proprio tutto.

La crisi dell’auto ha però evidenziato enormemente negli ultimi tempi quanto sia ‘elefantiaca’ l’Aci. Con il mercato dell’auto sceso ai livelli di cinquant’anni fa, il re è nudo con i suoi tremila dipendenti, 106 strutture provinciali e Dio solo sa quante società appese. L’Aci nazionale controlla innanzitutto la Sara assicurazioni, cui fanno capo altre nove partecipazioni. C’è il 21% della compagnia turistica Valtur di Carmelo Patti, finita in amministrazione straordinaria. C’è il 10% della società finanziaria Zenit. C’è l’87% della Ala assicurazioni e il 100% della Sara vita. E c’è anche una piccola quota in Nomisma, il centro studi bolognese fondato da Romano Prodi. Ma non è ancora finita. Nel portafoglio dell’Aci c’è per esempio l’Aci informatica, cui era stata assegnata l’architettura informatica del costosissimo sito turistico nazionale Italia.it, protagonista di innumerevoli disavventure. E poi una impresa di progettazione, studi e consulenze (Aci Consult), quindi la società proprietaria dell’autodromo di Vallelunga nei pressi di Roma (Aci Vallelunga), una ditta di «assistenza tecnica ai veicoli e assistenza sanitaria alla persona» (Aci Global), una immobiliare (Aci Progei), una società sportiva (Aci sport) e un’agenzia di viaggi (Ventura). Ciliegina sulla torta, la joint venture al 50 per cento con la casa editrice di Silvio Berlusconi (Aci Mondadori) finita molto male pochi mesi fa, con tanti giornalisti a spasso e alcune testate legate al mondo dell’automobile chiuse nel giro di pochi mesi.

Ci sono poi le varie controllate e collegate alle Aci provinciali. Sono centinaia, e vanno dall’autodromo di Monza a società immobiliari, a imprese turistiche, ad aziende che gestiscono parcheggi. Soltanto di «Aci service» se ne contano sedici diverse. Da questo ai bilanci colabrodo, il passo è breve. Su la Repubblica nel 2012 Antonio Fraschilla ha raccontato che di quelle 106 associazioni locali ben 57 risultavano in perdita. Dai 6 milioni di Palermo ai 4 di Lecco, ai 5 di Roma, ai 2 di Venezia, al milione di Cagliari, Catanzaro, Padova… Ma è niente al confronto della voragine dell’Aci nazionale.

Ma qui bisogna fare attenzione. Stando a un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 2013, il bilancio 2010 si è chiuso con una perdita di 30,3 milioni, ma sarebbero stati più di 41 senza gli 11 milioni di proventi straordinari: 9,8 di «utilizzo fondi di accantonamento» e un milione di cancellazione di residui passivi. Quello del 2011 è andato in attivo per 26,6. Attivo puramente contabile, conseguito grazie a plusvalenze per 48,8 milioni. Anch’esse puramente contabili, perché ottenute con la cessione per quasi 53 milioni di un fabbricato in via delle Perle a Roma alla immobiliare del gruppo Aci Progei. In altre parole, venduto a se stesso. Senza quella curiosa partita di giro il bilancio si sarebbe chiuso forse con un clamoroso rosso per 22 milioni!

Lo schema si è ripetuto nel 2012, con plusvalenze contabili per 7,6 milioni: la vendita delle sedi di Roma e Palermo alla solita Aci Progei e di un terreno alla società, sempre controllata dall’Aci, che ha in gestione l’autodromo di Vallelunga. Però queste operazioni sono servite soltanto a mitigare un drammatico passivo di 28,7 milioni di Euro quale perdita netta. Risultato, senza considerare quei singolari proventi straordinari, negli ultimi tre anni nei conti dell’Aci si sarebbe aperta una voragine di un centinaio di milioni.

DCF 1.0

Stipendi faraonici per i dirigenti Aci.

Di fronte a una situazione del genere qualunque governo sarebbe già intervenuto da tempo con la dovuta decisione, anche in seguito alle solenni bacchettate della Corte dei conti. Oltre ad evidenziare alcune irregolarità, la magistratura contabile non ha mancato di sottolineare la vistosa entità di certi emolumenti dei vertici. Il segretario generale Ascanio Rozera, potentissimo factotum da 41 anni dipendente dell’Aci, viaggia intorno ai 300 mila euro annui. Mentre al presidente Angelo Sticchi Damiani, nominato ai vertici dell’ente come ha raccontato il Fatto quotidiano alla vigilia di una sentenza della stessa Corte dei conti che l’ha condannato in primo grado a pagare 21.986 euro per un presunto danno erariale arrecato proprio all’Aci riguardo alcune sponsorizzazioni per i campionati automobilistici italiani di tanti anni fa, ne toccano 236 mila. E i tre vicepresidenti? La Corte dei conti dice che ciascuno di loro ha diritto a 105.799 euro l’anno. Un piccolo obolo, a giudicare dal calibro della terna, nella quale spicca un nome: quello dell’ex potentissimo Pasqualino De Vita, classe 1929. Da ben 18 anni, ancora prima di essere nominato a capo dell’Unione petrolifera, occupa la poltrona di presidente dell’Automobile club di Roma. Ed è stato anche presidente di Aci informatica e Aci Mondadori, quindi consigliere della Sara. Un caso tipico, il suo, di come funzionano le cose in quel mondo chiuso e autoreferenziale nel quale gruppi di potere ristretti e intramontabili fanno il bello e cattivo tempo, passando da un incarico di vertice all’altro. Rosario Alessi, classe 1932, divenne Presidente dell’Aci a cinquant’anni, nel 1982. Dopo 18 primavere, nel 2000, ha passato la mano: «Ritengo di essere un uomo col senso della misura e penso non si possa stare diciott’anni seduto allo stesso posto». Ad aprile scorso, in prossimità dell’ottantunesimo compleanno, è stato confermato alla presidenza della Ala assicurazioni. Nel 2012 era stato nominato presidente della Sara. Prima ancora Sara Life, Sara immobili, Banca Sara, Holding Banca Sara…

Va detto che talvolta si registra anche qualche spettacolare new entry, come quando all’Aci di Milano arrivò il commissario Massimiliano Ermolli, figlio di quel Bruno Ermolli tra i consiglieri più fidati di Berlusconi. E come da commissario diventò presidente, ecco sbarcare in consiglio Geronimo La Russa, figlio del ministro Ignazio e già consigliere della Premafin della famiglia di Salvatore Ligresti, insieme a Eros Maggioni: il consorte di Michela Vittoria Brambilla, allora ministro del Turismo. Del resto, quello che proprio all’Aci non manca sono i posti. Ognuna delle 106 strutture provinciali ha un consiglio di amministrazione, di regola formato da cinque persone (a Milano sono sette), più un collegio di tre revisori. Fate il conto: superare quota 800 poltrone è un attimo.

I governi, a quanto pare, hanno sempre trattato l’Aci con i guanti bianchi. Basta pensare al decreto ministeriale con il quale sono state aumentate le tariffe dovute all’Aci in debito d’ossigeno per il mantenimento del ‘doppione’ Pra. Era il 21 marzo del 2013 e il governo di Mario Monti autore del provvedimento, dimissionario da tre mesi, fremeva per passare il testimone. Ma se si eccettua la reazione della Unasca, l’associazione delle autoscuole, che fece ricorso al Tar lamentando per i cittadini un salasso ulteriore da almeno 30 milioni (contestato dall’Aci), nel Palazzo nessuno ebbe qualcosa da dire…

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